A.C.2528
Grazie, Presidente. Ministra, colleghi, colleghe, oggi prendo la parola in quest'Aula - e di questo ringrazio il mio gruppo - con un sentimento preciso: la responsabilità. Gli uomini non devono sentirsi chiamati in causa per solidarietà, devono sentirsi chiamati in causa per responsabilità, perché la violenza contro le donne è violenza commessa dagli uomini ed è a noi uomini che spetta di cambiare. La responsabilità quindi di portare non soltanto la mia voce, la nostra voce - come stiamo facendo -, ma la voce afona di tante donne che non possono più parlare. In un giorno come questo, il 25 novembre, non possiamo sfuggire a una verità essenziale: la violenza contro le donne non è un'emergenza improvvisa.
È un fenomeno strutturale, radicato, quotidiano, è la punta più brutale di un sistema che ancora oggi mette in discussione l'autonomia e la libertà delle donne.
I dati EURES ci dicono che dal 2000 oggi sono quasi 3.200 le donne vittime di femminicidio e soltanto nel 2025 più di 90 donne sono state uccise da uomini, che per l'80 per cento avevano un ruolo affettivo, relazionale o familiare nelle loro vite. Leggevo proprio oggi un'intervista alla giornalista Donata Columbro, per il suo libro Perché contare i femminicidi è un atto politico. Scrive, riferendosi alla raccolta di questi dati: “Anche questo è femminismo: non sentirsi solo col proprio foglio Excel. Dietro ogni riga di un foglio Excel c'è una donna uccisa, ma anche un pezzo di lavoro collettivo. Contare diventa un atto di cura. Le persone che ho incontrato non lo fanno solo per ricordare, ma per salvare altre donne, per dare strumenti di consapevolezza e di prevenzione”.
Non numeri, non statistiche, nomi di donne: Elisa, Axhere, Fabiana, Piera, Maria, Caterina, Johanna, Eleonora, Cinzia, Tilde, Anna, Ramona, Anna, Carla, Sabrina, Daniela, Ruslana, Ilaria, Laura, Sara, Daniela, Nataly, Immacolata, Chiara, Teresa, Samia, Lucia, Carmela, Claudia, Carmela, Ermela, Amina, Chamila, Teodora, Daniela, Maria, Mariateresa, Daniela, Vasilinca, Martina, Fernanda, Maria Antonietta, Sueli, Elena, Maria Rita, Amalia, Anastasia, Andromeda, Piera, Gentiana, Annamaria, Anna Adele, Teresa, Maria, Assunta, Franca, Giovanna, Raisa, Erika, Geraldine, Samantha, Luisa, Emilia, Kaur, Fatimi, Silvana, Tiziana, Vincenza, Zinoviya, Assunta, Lorella, Evelin, Cinzia, Veronica, Simona, Elisabetta, Maria, Clelia, Fedora, Nadia, Pamela, Vanda, Olena, Luciana, Jessica.
Questi nomi sono il nostro punto di partenza perché non possiamo limitarci a dire “mai più”, se non affrontiamo perché il numero non diminuisce. Va riconosciuto che il nostro Paese ha avuto ed ha strumenti giuridici avanzati, dal codice Rosso in avanti l'Italia ha introdotto norme che in molti Stati europei ancora non hanno, non da ultimo il passaggio fatto proprio la settimana scorsa in quest'Aula, con la riforma del dell'articolo 609-bis del codice penale, un passaggio di civiltà nell'affermare che senza consenso è stupro. Oggi, in modo condiviso, con l'introduzione della autonomo reato di femminicidio nel codice penale, compiamo un altro passaggio significativo e voglio dirlo con chiarezza in quest'Aula: con sensibilità diverse si compie però un passo comune e quando il Paese chiede una risposta unitaria la politica deve dimostrare di saper convergere, ma convergere non significa rinunciare all'analisi. La scelta che compiamo oggi, introdurre quindi una fattispecie autonoma e non una semplice aggravante dell'articolo 575, ha un significato giuridico preciso: si riconosce che l'omicidio di una donna motivato da prevaricazione, possesso, dominio non è un omicidio come gli altri, è un atto radicato in un movente specifico che merita un inquadramento penale autonomo.
Significa affermare, nel cuore del codice penale, che lo Stato riconosce l'esistenza di un fenomeno specifico e lo nomina per quello che è. È un'impostazione perfettamente in linea con la Convenzione di Istanbul, che ci chiede espressamente di rendere riconoscibile e punibile la violenza di genere in quanto tale. Questo non contrasta con il principio di determinatezza. I concetti richiamati dalla norma - odio, discriminazione, controllo, possesso - non sono categorie indefinite, sono concetti già elaborati da anni di giurisprudenza nei reati d'odio, nei maltrattamenti, negli atti persecutori. Con la previsione dell'ergastolo poi come pena si elimina la possibilità di ricorrere a giudizio abbreviato. È una scelta consapevole, che afferma la gravità assoluta di questo crimine, impedendo che si possono ottenere riduzioni di pena. Importante è inoltre l'estensione del patrocinio a spese dello Stato alle vittime dei reati del Codice rosso e ai tentativi di femminicidio. Significa renderle davvero accompagnate dallo Stato e non abbandonate a sé stesse. Un impianto quindi coerente, solido e necessario, per il quale ovviamente anche il nostro gruppo al Senato ha provato a dare e ha dato il suo contributo, con il rafforzamento degli obblighi formativi, l'estensione delle tutele degli orfani, il potenziamento del braccialetto elettronico, la rimozione dei limiti delle intercettazioni, delle garanzie procedurali per la persona offesa e l'accesso facilitato ai centri antiviolenza per le vittime minorenni.
Allora mi pongo e vi pongo però una domanda: basterà una giusta norma penale e repressiva a invertire la rotta? La repressione, appunto, è sufficiente? Purtroppo non è bastato finora, non basterà domani perché, guardate, c'è una radice profonda della violenza: è quella culturale, è nella struttura profonda dei rapporti tra uomini e donne. E allora il 25 Novembre non può diventare un atto e un rito consolatorio. La violenza maschile contro le donne è l'esito di un sistema di potere che assegna agli uomini una posizione di controllo e di dominio sulle donne, un sistema in cui la libertà delle donne non è pienamente accettata e per me ha un nome preciso, ancora oggi: patriarcato. Il patriarcato, guardate, non è un concetto ideologico, è una struttura sociale che ancora permea relazioni intime, linguaggi, modelli educativi, ruoli professionali, distribuzione del potere. Non riguarda soltanto la sopraffazione, la sopraffazione fisica, riguarda la difficoltà di accettare la piena autonomia delle donne; riguarda gli stereotipi che ancora attraversano la scuola, il lavoro, le famiglie; riguarda i modelli di mascolinità che vengono tramandati ai ragazzi; e non riguarda solo la sopraffazione di uomini sulle donne, riguarda anche il modo in cui le donne stesse sono state educate a diffidare di altre donne e ad interiorizzare l'idea che lo spazio pubblico non sia loro. Quindi, dobbiamo dirlo con chiarezza: la libertà delle donne non può essere vissuta come una minaccia dell'identità maschile, non può essere percepita come una perdita di status. È qui che si misura appunto la maturità della nostra società, nelle capacità di abbandonare gerarchie ingiuste, che per secoli hanno definito chi ha il potere di decidere e chi no. Ma se questa è la radice, allora dobbiamo avere il coraggio di guardare in profondità, perché la violenza non nasce quando un uomo alza le mani, nasce molto, ma molto prima: nasce nei modelli di comportamento che trasmettiamo ai bambini, nei silenzi che giustificano, negli stereotipi che tolleriamo. Allora arriva un punto, che è già stato portato all'interno di quest'Aula negli interventi che mi hanno preceduto, ma che tutti noi ancora consideriamo decisivo: educazione, educazione, educazione. Un tema del quale abbiamo anche dibattuto in queste settimane e di cui continueremo a farlo ancora, prossimamente: educazione al rispetto, educazione al consenso, educazione affettiva e sessuale, come strumenti per costruire cittadini consapevoli e non come vezzi ideologici; educazione alla gestione delle emozioni, perché un ragazzo che non sa riconoscere la frustrazione e l'abbandono è un ragazzo più vulnerabile alla cultura del possesso. E dobbiamo dirlo con forza. Se non offriamo ai nostri giovani gli strumenti educativi minimi, il vuoto verrà colmato da altro: dai social, dalle polarizzazioni, dai modelli tossici, che parlano più forte delle istituzioni. Non possiamo quindi delegare l'educazione ai luoghi che generano distorsione e non emancipazione.
Per questo oggi noi, il nostro gruppo, mentre approva una norma penale, vuole indicare il perimetro - e parlo anche a lei, signora Ministra - di una responsabilità più ampia: costruire un ecosistema educativo che prevenga la violenza prima che accada.
E, infine, voglio richiamare l'ultima parola: comunità. Nessun'emancipazione individuale, il femminismo è stato e deve restare comunitario: uomini e donne insieme, non in contrapposizione, ma come alleati. Perché la violenza contro le donne non è, come dicevo all'inizio, una questione di donne; riguarda la qualità della nostra democrazia, riguarda il modo in cui questo Paese immagina la libertà. E concludo.
Colleghe e colleghi, i nomi che ho letto all'inizio non sono, dal mio punto di vista, un rito. A loro penso che dobbiamo memoria, ma, soprattutto, impegno: impegno politico, culturale, educativo, un impegno quotidiano, perché la violenza contro le donne non finirà quando cambieremo la legge, finirà quando cambieremo lo sguardo di questo Paese sulle donne e lo sguardo degli uomini su se stessi. Nessun applauso, quindi, ma un impegno collettivo nel nostro ruolo, perché i nomi che abbiamo ricordato oggi non hanno bisogno di essere celebrati, hanno bisogno che smettiamo di produrre i prossimi.